di Giacomo Lanzilotta

Discendente da un’antica e importante famiglia castellanese (sulla cui genealogia, di nobili origini, lo stesso pittore scrisse un trattato, oggi conservato nella biblioteca civica di Castellana), e fratello di Luigi (il noto scienziato, geologo e cultore di numismatica), Francesco dell’Erba mostrò sin dalla prima giovinezza una spontanea inclinazione al disegno e alla pittura; si ha testimonianza infatti di un suo primo dipinto realizzato quand’aveva appena sedici anni, conservato presso una raccolta privata, opera d’esordio che conferma le qualità artistiche del giovane don Ciccio e sembra preannunciarne la luminosa carriera.
Dopo gli studi classici, nei seminari di Molfetta e Conversano, intorno al 1866 si trasferì a Napoli, per frequentare l’Accademia di Belle Arti. Nel capoluogo partenopeo, non più capitale borbonica, si registrava ancora una fase di grande vivacità culturale. Da una parte l’Accademia, l’istituzione ufficiale della formazione degli artisti, che a Napoli convergevano da tutte le regioni del Meridione: una istituzione tuttavia contestata per la sua rigida impostazione classicista, alla quale frange di artisti d’avanguardia contrapponevano delle scuole private orientate alla moda, allora corrente, del verismo. In città dal 1863 c’è Adriano Cecioni, organizzatore della “Scuola di Resìna” a Portici, frequentata da Giuseppe De Nittis (coetaneo del dell’Erba, appena espulso dall’Accademia), Federico Rossano, Antonino Leto. La scuola di Cecioni si poneva in aperta opposizione all’egemonia culturale dell’Accademia napoletana, in quegli anni dominata dall’imponente personalità di Domenico Morelli; inoltre a Napoli negli stessi anni operava indipendente un altro illustre pittore pugliese, Gioacchino Toma, autore di dipinti dal contenuto storico-patriottico.
In questo ambiente ricco di stimoli il giovane dell’Erba si andava formando agli insegnamenti dell’Accademia senza però ignorare le più innovative proposte che venivano da altre direzioni; in particolare seguì i corsi del Morelli per il disegno e di Giuseppe Mancinelli per la pittura. Controllo del disegno, apertura a rappresentazioni veriste nei paesaggi e nelle scene di genere, colori meditati e ritratto accademico, ecco in sintesi lo stile del giovane artista castellanese, ormai maturato negli anni napoletani e pronto a mettersi in gioco alle prime grandi rassegne artistiche nazionali. Il suo trasferimento a Firenze, intorno ai primi anni settanta, può leggersi in questa ottica: infatti egli prende parte appieno alla vita culturale della città. Il capoluogo toscano, già seconda capitale del Regno, stava vivendo all’epoca una stagione felice di centro artistico culturale nazionale, luogo primario di ritrovo dei maggiori artisti da ogni regione, e ruolo di avanguardia col gruppo dei Macchiaioli, almeno quelli che non s’erano dispersi altrove.
Giovanni Fattori deteneva allora la cattedra di pittura nell’accademia fiorentina. A Firenze dell’Erba partecipa alla sua prima importante collettiva, la Mostra bandita dalla Società di incoraggiamento per le belle arti di Firenze del 1873, con il dipinto La Delusa. È l’inizio del decennio più fertile per il giovane artista, che prende parte a tutte le rassegne più significative che si svolgevano in Italia, nel momento in cui, tra l’altro, si trasferisce a Roma per completare gli studi presso l’Accademia di San Luca.
Vivere e operare nella Città Eterna, da pochi anni capitale del giovane Regno d’Italia, doveva costituire per il dell’Erba la grande occasione per un salto di qualità nella sua carriera d’artista, non solo attraverso il perfezionamento accademico ma soprattutto per la possibilità di misurarsi nell’agone delle grandi esposizioni regionali e nazionali con i più famosi pittori del suo tempo. Prova ne fu il successo personale riscosso all’Esposizione Artistica romana del 1879, allorquando fu onorato dell’acquisto di un suo dipinto, Il racconto del nonno, da parte dei sovrani Umberto I e Margherita di Savoia. Opera di grandi dimensioni, secondo la testimonianza di Michele Viterbo, destinata alle sale del Quirinale e oggi purtroppo irrintracciabile. Una mia ricerca diretta presso il Quirinale non ha portato riscontri positivi; non solo il dipinto non è conosciuto – mi asserisce il curatore del Patrimonio artistico del Quirinale, Louis Godart – ma nemmeno figura una sua menzione negli inventari. Non è un caso isolato, del resto, almeno da quelle parti: pare che nel periodo convulso dell’ultimo scorcio di monarchia, tra la fine del secondo conflitto mondiale e il referendum del 2 giugno 1946, i Savoia provvidero a “sgomberare” in fretta e furia le loro residenze di gioielli, opere d’arte e tesori di famiglia per trasferirli all’estero, prevenendo le temute confische dell’era repubblicana. Insomma, non si può escludere che il dipinto del nostro don Ciccio sia conservato tuttora presso qualche residenza sabauda in Europa, tra Cascais e Ginevra. Per la verità, a riguardo mi presi la briga qualche tempo addietro di contattare direttamente casa Savoia per sapere se per caso ce l’avessero ancora loro il quadro, ma finora non ho ricevuto risposta.
Stessa sorte ha subìto un altro dipinto del periodo romano del pittore, di poco successivo al Racconto del nonno: il Molière che legge una sua commedia alla serva, del 1880, che all’epoca fu acquistato dal Ministero dell’Agricoltura. Medesima situazione, come pure analoga è l’assenza dell’opera dagli inventari del Ministero. Non c’è da stupirsi più di tanto. A Napoli invece si conserva a tutt’oggi un altro importante dipinto di quegli anni, la Beffa all’ubriaco, datato 1878, che fu acquistato per 550 lire dal Museo Archeologico Provinciale di Napoli in occasione della XV Esposizione artistica nazionale della Promotrice napoletana “Salvator Rosa” (1879). Il quadro fa parte delle collezioni d’arte della Provincia di Napoli ed è esposto in una delle sale di rappresentanza del Palazzo.
Anche i primi anni del decennio successivo sono forieri di successi personali, conquistati uno dopo l’altro alle grandi rassegne: presenta una Pace domestica (non rintracciata) all’Esposizione Nazionale di Milano del 1881, una Veduta di Villa Corsini (collezione privata) all’Esposizione di Roma del gennaio 1883.
Come si può evincere, a sciorinare i soggetti presentati, è evidente che Francesco dell’Erba prediligesse la cosiddetta “pittura di genere”, cioè quell’ampia tematica di soggetti rappresentanti delle situazioni, di carattere sociale, storico, privato, desunte dalla vita quotidiana: un genere sempre alla moda al tempo del dell’Erba, fatto da “microstorie”, narrate con minuzia descrittiva e dovizia di particolari, che il pittore presentava al grande pubblico che frequentava le esposizioni. Ogni microstoria aveva poi qualcosa da dire, se non una morale vera e propria, piuttosto un messaggio di semplice narrazione: la delusione per un messaggio dal contenuto avverso, l’anziano capostipite continuatore di tradizioni orali per le generazioni successive, la confidenza d’un letterato alla propria domestica, il degrado dell’ebbrezza e la derisione degli astanti, e così via. In questi personaggi e nelle situazioni e storie che rappresenta, assieme all’ampia galleria di ritratti, dell’Erba si fa narratore e descrittore di quella che era la società del suo tempo, e in particolare di quella classe borghese, dinamica e liberale, che si faceva promotrice dell’identità nazionale del nuovo Stato unitario.
Osserva lo storico Giulio Petroni (1912) che Francesco dell’Erba, grazie alla sua condizione “di agiata e onorevole famiglia di Castellana”, ebbe “un gran vantaggio su molti altri artisti, lavorar per diletto, e non aver a combattere contro la malvagia fortuna”. In parole più semplici, il nostro artista non si piegò mai a fare pittura “commerciale”, di facile richiamo, come tanti suoi colleghi facevano, o perché smaniosi di facile successo, o per bisogno di incassare, non importa come, con una serie di soggetti bozzettistici, ripetuti a catena, che facevano presa sui tanti acquirenti senza molto gusto: alla maniera, per intenderci, di un Raffaele Armenise o di un Vincenzo Irolli.
Egli dipinse appunto per passione, con un certo senso di distacco che gli permetteva di coltivare anche tanti altri interessi; e infatti sappiamo che al pari della pittura Francesco dell’Erba fu anche un intellettuale di rilievo, cultore delle patrie memorie e soprattutto imprenditore enologo, capace di produrre vini di un certo pregio. Doveva essere insomma una sorta di peculiarità della famiglia, data pure l’articolata poliedricità del fratello Luigi.
È vero però che il “lavorar per diletto” da un canto gli permise di mantenere alto il livello qualitativo della sua produzione, ma d’altro canto non costituì per lui uno stimolo sufficiente a proseguire con convinzione e assiduità nella sua carriera artistica. Infatti, in seguito alla morte del padre, avvenuta nel 1883, Francesco dell’Erba rientrò a Castellana e vi si stabilì definitivamente. Le sue partecipazioni alle grandi mostre collettive divennero sempre più sporadiche, e vale la pena in proposito ricordare l’ultima esposizione significativa, la Prima Mostra artistica Pugliese del 1900, nella quale presentò diverse opere, tra cui La lezione del tutore e Una confidenza d’amore e fu premiato con la medaglia d’argento. Sempre più afflitto dalla sordità negli ultimi suoi anni, il pittore si spense a Castellana il 19 novembre 1909.
Note della redazione
A fine 2011 è stato pubblicata, per i tipi di Adda Editore e a firma dello stesso Giacomo Lanzilotta, l'opera definitiva Francesco dell'Erba pittore 1846-1909 Il ritratto della borghesia nell'Italia post-unitaria.