La mitopéia infantile di Pavese, quel concepire l'infanzia come un tempo mitico, al di fuori del trascorrere delle cose, quel processo che fa, di ogni avvenimento vissuto nei primi anni di vita, un simbolo, uno schema normativo, nel catalogo di esperienze uniche e assolute che guidano alla scoperta/ritrovamento dell'età adulta: è il caso de ''Il fanciullo dell'estate'', prima opera letteraria di Cesare Monaco.
Castellanese d'adozione, tricaricese di nascita, Monaco consegna per i tipi di Giannettelli un ritratto famigliare dei Monaco, famiglia di antica nobiltà. Ma, inevitabilmente, l'opera finisce per divenire affresco di un'epoca e di un luogo, la terra dei Leukànoi alle soglie della modernizzazione.
Erano gli anni Cinquanta in un'Italia reduce dalla scoperta della "vergogna nazionale di Matera'', il boom economico era alle porte.
Nuove frange di popolazione, tentando di affrancarsi dalla fame e dall'ignoranza, affluivano copiose nei grandi centri urbani: solo l'inizio del processo di abbandono dei piccoli centri, a vantaggio dell'inurbamento selvaggio, è il momento della rapida crescita delle periferie delle grandi città.
Pasolini salutava la fine di un'epoca e presagiva le criticità venture della società di massa. Ernesto De Martino raccoglieva perle preziose di passato, registratore alla mano. A Masseria Canaldente, il piccolo Cesare Monaco osservava attento, recepiva nomi, luoghi, vite piccole e grandi, stipava piccoli tesori nella sua memoria. Di lì a poco il trasferimento a Napoli e l'ingresso nell'età adulta, quella del ''ritrovamento'': gli studi di medicina, gli incarichi direttiva nell'unità di anestesia e rianimazione all'I.R.C.C.S. ''Saverio De Bellis'' di Castellana-Grotte, l'impegno nella Croce Rossa.
Ma, se è vero che "ben poco la vita adulta può attingere al tesoro infantile di scoperte", come scriveva Pavese, ancor più preziose si fanno le sue storie, miracolosamente sopravvissute ai fluire dei decenni. Non resta che ascoltarle.