Vi è un rapporto tra carenza di vitamina D e forme particolarmente severe di Covid 19?
Uno studio studio condotto dall'I.R.C.C.S. ''Saverio De Bellis'' di Castellana-Grotte, disponibile sulla Wiley online library, catalogo statunitense che annovera decine di migliaia di contributi, tra libri, riviste e articoli, di spessore scientifico, affronta la questione. "È ben noto che i raggi solari e l’apporto nutrizionale assicurano livelli fisiologici di Vitamina D. Eppure, in Italia l’ipovitaminosi D è più frequente che nei Paesi Scandinavi" come spiega nella prefazione Gianluigi Giannelli, direttore scientifico dell'ente.
"In particolari i soggetti anziani più fragili hanno livelli di vitamina D molto bassi. Il coronavirus SARS-Cov-2 produce una polmonite interstiziale severa agendo sul recettore ACE2, quindi provocando uno squilibrio nel sistema renina-angiotensina, con conseguente tempesta citochinica e reazione infiammatoria responsabile del tromboembolismo (di qui l’impiego della terapia con eparina) recentemente segnalato come importante causa di decesso".
Quale il valore del contributo pubblicato dall'Istituto?
"Il nostro studio ha documentato, per la prima volta, che le popolazioni con minori livelli di vitamina D presentano una più alta incidenza di mortalità dovuta all’infezione da SARS-Cov-2. Altri ricercatori, in questi giorni hanno confermato che negli Stati Uniti, pazienti americani che hanno sviluppato la forma severa di COVID-19 avevano valori di vitamina D molto più bassi, rispetto a quelli con forma lieve. Questi dati preliminari, suggeriscono che l’assunzione di vitamina D, soprattutto in chi abbia ipovitaminosi (soggetti ospedalizzati, pazienti con malattie croniche e, in particolare, quelli con disturbi cronici intestinali come le stipsi, le IBD, le IBS), possa essere protettiva verso il danno polmonare in corso d'infezione da SARS-Cov-2".
Foto e fonte I.R.C.C.S. ''De Bellis''