A un mese dalla tradizionale Festa della Madonna del Caroseno, che ha luogo ogni anno, il 7 e 8 settembre, seguita dall'ultrasecolare fiera annuale, sono finalmente terminati i lavori di restauro della facciata lapidea di nord-est di Santa Maria del Caroseno, il bel tempio castellanese in angolo con la via per Putignano.
Torna, pure, il doppio senso di circolazione veicolare nel tratto di via Conversano prospicente la chiesa dedicata alla Vergine protettrice delle partorienti.
Un luogo a cui i castellanesi sono molto legati, la chiesa dedicata alla Madonna del Caroseno, un luogo che merita di essere meglio conosciuto.
Come testimoniato dalla bella foto di Michele Micca Longo per Castellana in fotografia, a sinistra, il risultato dei lunghi restauri, commissionati da don Vito Cassone, parroco di Santa Maria del Caroseno, è suggestivo: un caldo color ocra in luogo della nuda pietra, la restituzione al sacro edificio della patina donata dal trascorrere dei secoli dopo le laboriose operazioni di pulizia.
Sotto l'Alta Sorveglianza per la Soprintendenza A.B.A.P. per la Città metropolitana di Bari, nelle persone dei funzionari responsabili Francesco Del Conte e Maria Cristina Tiberini, a progettare e dirigere i lavori gli architetti Piernicola C. Intini e Piero Intini; per la Diocesi di Conversano-Monopoli, tecnici incaricati gli ingegneri Giovanni Pinto e Pietro D’Onghia.
A condurre i lavori, l’Edil Ciccone s.r.l. di Locorotondo - impresa OG2 specializzata nel restauro e nella manutenzione dei beni immobili sottoposti a tutela - e la ditta Felicia La Viola di Bari, impresa OS2 specializzata nelle superfici decorate di beni immobili del patrimonio culturale e beni culturali mobili di interesse storico, artistico, archeologico e etnoantropologico.
Ad occuparsi dell'impianto campanario, la Brevetti Giannattasio di Pontecagnano Faiano, in provincia di Salerno e la Pontificia Fonderia di campane Marinelli di Agnone, in provincia di Isernia.
I lavori sono stati finanziati per il 70% dalla Conferenza Episcopale Italiana (C.E.I.) con il Fondo 8 x 1000 alla Chiesa Cattolica, per il restante 30% da risorse messe a disposizione dalla Parrocchia. In particolare, il restauro delle statue e la manutenzione dell’impianto campanario sono stati commissionati completamente dalla
Parrocchia.
"Nel corso delle lavorazioni, la necessità di valutazioni costanti ed approfondite e i continui e proficui riscontri con i responsabili dell’Alta Sorveglianza per conto della Soprintendenza A.B.A.P. della Città metropolitana di Bari, arch. Francesco Del Conte e dott.ssa Maria Cristina Tiberini, hanno comportato una conveniente estensione delle tempistiche rispetto a quelle inizialmente previste per il completamento delle opere", commentano gli architetti Intini.
"Le problematiche riscontrate, il vaglio delle metodologie più idonee per condurre a compimento questa non semplice opera di restauro hanno richiesto riflessioni, studi supplementari e analisi critiche circa le condizioni nelle quali ci è pervenuto il monumento, cui non sono certamente estranee la particolare condizione nel contesto cittadino e le sollecitazioni negative che da esso provengono e a cui è quotidianamente sottoposto. Ci si riferisce, nello specifico, all’intenso traffico veicolare, i cui effetti appaiono essere stati scarsamente limitati dall’istituzione temporanea del senso unico di marcia in prossimità del prospetto, a giudicare dalle vibrazioni perfettamente percepibili dalla posizione “privilegiata” di chi ha lavorato sui ponteggi. Come pure dai prodotti di scarico dei veicoli e dalla conseguente situazione di inquinamento ambientale, i cui effetti estremamente dannosi sui materiali costitutivi, erano e sono visibili sulle superfici lapidee".
Un monumento, insomma, al quale non giova la posizione centralissima, alla sommità di via Roma e il consistente traffico veicolare sottostante. A destra, un'immagine della chiesa prima dell'intervento.
Ma qual è la storia dell'edificio? Sono ancora gli architetti Intini a tracciarne le tappe fondamentali sulla base degli studiosi locali Marco Lanera e Giacomo Lanzilotta.
La presenza della chiesa di Santa Maria del Caroseno sarebbe attestata già dal XVI secolo. Marco Lanera [cfr. M. LANERA, Gli atti della santa visita del 1738: documenti per la storia ecclesiastica e civile di Castellana in Terra di Bari, p. 127, f. 40] suggerisce che la rosetta in pietra intagliata attualmente murata in controfacciata sarebbe da ascrivere all’edizione cinquecentesca della chiesa e ne azzarda la datazione al 1568.
A quest'epoca risalirebbe l’impostazione a navata unica forse coperta con tetto a capriate lignee (successivamente sostituite da una volta a botte) sorretto da otto arconi ogivali, quattro per lato, che nei secoli successivi ospiteranno altari e culti propri. In base alla descrizione della Santa Visita del 1738 si è ipotizzato un orientamento inverso a quello attuale [Lanera, Gli atti..., p. 75] che prevedeva l’accesso a Occidente.
Nel Seicento, sempre secondo il Lanera, la chiesa venne ricostruita. Con buona probabilità si trattò di un vero e proprio ampliamento che ne modificò la planivolumetria: l’attuale presbiterio sarebbe stato costruito in forma di coro quadrato con copertura ‘a stella’ per ospitare il clero celebrante e ricorda vagamente la cappella del castello Marchione dei Conti di Conversano. Non appaia inusuale la costruzione di un coro nella porzione anteriore della chiesa: un caso simile avvenne, ad esempio, per la chiesa conventuale delle clarisse di Noci (seppur in questo caso, il coro venne innalzato sul cortile d’accesso alla chiesa che da quel momento in poi divenne un vestibolo coperto che consente l’ingresso all’aula). A questo periodo è ascrivibile l’affresco della Madonna collocato sull’attuale altare maggiore che probabilmente in origine non dotava un proprio altare ma che, piuttosto, decorava la parte alta degli stalli dei coristi vegliando sulle loro liturgie, anzi, forse, si può ipotizzare che fosse collocato (vista la quota elevata rispetto al piano di calpestio) proprio sull’accesso a ponente.
In ogni caso, quando il Vicario Zappulli compie la Santa Visita nel 1738, l’impostazione della chiesa è quella appena descritta.
Il cambio di orientamento dovrebbe essere avvenuto nei decenni successivi. La commissione del cappellano del Caroseno per le tele di San Pietro Apostolo e San Giovanni Evangelista è dell’agosto del 1767 (G. LANZILOTTA, Vincenzo Fato nella pittura del Settecento in Puglia, pp. 137-138): segno evidente che la macchina d’altare in pietra è stata edificata (o è in fase di ultimazione) tanto che i due pregevoli dipinti vengono incastonati perfettamente tra le colonne tortili della stessa. Allo stesso pittore, nel 1785, è commissionata anche la tela centrale della Madonna del Caroseno che copre l’affresco seicentesco [LANZILOTTA, Vincenzo..., p. 163]. È probabile che in questo periodo si fornisca il vecchio coro degli stucchi adeguandolo dignitosamente a presbiterio.
Sono anni di grandi fermenti e opere: nel 1784, come da data incisa, si concluse presumibilmente la costruzione dell’imponente facciata a Nord-Est che accoglie in tre nicchie – due nel registro inferiore, una in quello superiore – le statue dei santi tutelari: San Pietro Apostolo e San Giovanni Battista e, in alto al
centro, la Beata Vergine Maria. Le prime due sculture – stilisticamente diverse dalla Madonna – potrebbero provenire da un dittico contenuto nell’antica chiesa (o potevano ornare l’altare principale o l’antica facciata?). La Santa Visita del 1738 non descrive l’altare maggiore e tra gli altari raccontati nelle cappelle laterali, non compare alcune indicazione delle due statue e dei due santi. A completare l’opera si aggiungono otto angeli musicanti sul fastigio e due oranti posizionati accanto alla Madonna (in verità, questi ultimi, certamente preesistenti alla facciata).
Curioso, alfine, appare l’avvicendamento cultuale (voluto?) che – se l’ipotesi dell’appartenenza delle statue all’altare maggiore fosse corretta – sostituisce l’immagine scolpita del Battista che finisce in facciata con l’omonimo Evangelista dipinto dal Fato.
In cosa è consistito l'intervento? Ecco la descrizione delle operazioni e la motivazione delle opzioni adottate.
Preliminarmente all’avvio delle opere di restauro, sono stati condotti alcuni saggi per determinare le caratteristiche chimico-mineralogiche e petrografiche dei materiali di facciata.
L’analisi visiva rendeva immediatamente percepibile la presenza di depositi carboniosi, anche di spessore importante, diffusi principalmente sulle superfici intradossali degli aggetti, meno esposti al dilavamento, come pure su alcune aree circoscritte della superfici, in particolare – osservando la facciata – la parte in
basso a sinistra, direttamente interessata dalla concentrazione di gas di scarico del traffico veicolare che rallenta o s’arresta in quel punto, in attesa di svoltare. A questo si aggiungevano colonie di agenti biodeteriogeni sulle superfici estradossali dei corpi emergenti, patine algali, licheni e piante infestanti, sviluppatesi tra i setti privi di stilature: queste ultime, in molti casi, erano state realizzate con malte cementizie.
A queste manifestazioni di degrado delle superfici si aggiungeva la presenza di una coloritura rosso-bruna in maniera diffusa ma discontinua, particolarmente evidente su zone delimitate del registro inferiore del prospetto e, solo parzialmente, sulla parte superiore.
È stata proprio questa patina rossastra l’oggetto delle maggiori attenzioni e riflessioni: si è discusso sulla sua origine e sulle conseguenti azioni da intraprendere per la sua conservazione o eventuale attenuazione e, soprattutto, sul riconoscimento di una tecnica o procedura forse perduta nel corso dei secoli. A queste domande hanno dato risposta le indagini diagnostiche, condotte presso il laboratorio CMR di Vicenza e il confronto con quanto rilevato sia da casi similari nello stesso centro urbano che dall’esperienza di altre realtà e studi effettuati in altri ambiti.
I saggi - condotti sia sul materiale lapideo (risultato non omogeneo nelle sue caratteristiche chimico-fisiche e petrografiche) che sulle malte e sulle patine - sono stati predisposti mediante un preciso piano analitico:
- Studio petrografico (SS) qualitativo e quantitativo delle malte in sezione sottile secondo UNI 11176:2006: analisi petrografica mediante osservazione al microscopio ottico polarizzatore in luce trasmessa di sezione sottile, per individuare la natura e la composizione della malta.
- Esame petrografico in sezione sottile di materiali lapidei secondo UNI EN 12407:2019: analisi petrografica mediante osservazione al microscopio ottico polarizzatore in luce trasmessa di sezione sottile, per individuare la natura del materiale lapideo.
- Studio al microscopio polarizzatore in luce riflessa di sezione lucida trasversale (SL): per individuare patine e incrostazioni superficiali.
- Studio al microscopio elettronico a scansione (SEM) corredato da microanalisi chimica elementare alla microsonda elettronica in dispersione di energia (EDS) su sezione lucida: per individuare la tipologia degli elementi inorganici nei materiai lapidei, caratterizzare il degrado e verificare la presenza di eventuali trattamenti.
- Microanalisi spettroscopica all’infrarosso (trasformata di Fourier) in μFT-IR: al fine di individuare e determinare la natura di possibili leganti e/o trattamenti di consolidamento e protezione.
A parte la presenza, sulla parte più esterna del supporto lapideo di particolato carbonioso e ferroso veicolato dall’aerosol cittadino, i risultati hanno mostrato la presenza di due strati di “pellicole” caratterizzate da carbonato di calcio miscelato a composti inorganici quali ocra gialla e rossa (silicoalluminati con ossido di ferro) e ossalati di calcio. Questi ultimi, cui si deve la degradazione rosso-bruna delle patine, oltre la citata presenza dei pigmenti ocracei, derivano verosimilmente da alterazione di prodotti proteici (tipo caseina), che miscelati alle terre e alla calce, hanno costituito in un certo periodo della vita della facciata, il “rinforzo” degli strati di protezione e di “rifinitura estetica”. Questo sistema apparirebbe diffuso e rintracciabile, quale trattamento superficiale, su diversi monumenti; la stessa città di Castellana Grotte ne mostra inequivocabilmente “segni” di utilizzi similari su alcuni degli edifici più rappresentativi sia di natura pubblica che ecclesiastica.
La ragione risiedeva, probabilmente, e dalla volontà di conferire un tono leggermente più “caldo” alla pietra biancastra e attenuare il contrasto derivante dalla presenza di materiale già “colorato” perché cavato in prossimità di lame o sacche di terra rosse e dunque già intriso di quegli ossidi che ne caratterizzano l’aspetto.
A volte queste patine potevano contraddistinguere e diversificare i fondi dalle “emergenze” quali lesene, cornici, modanature, dato che le parti “sporgenti” sono già segnate da lavorazioni distinte e ancora perfettamente percepibili, ovvero lavorate a gradina, dunque più lisce. Al contrario i pieni murari presentano le superfici sbozzate e, catturando la luce, assumono di per sé maggiore profondità.
Non è certa la datazione di questi interventi, ma si potrebbe supporre, dalla presenza di due soli strati ritrovati, peraltro estremamente frammentati e localizzati soltanto in alcuni punti che, dopo la realizzazione della facciata, alla fine del ‘700, questa tecnica venne praticata per un certo periodo. Stando ad alcune vaghe testimonianze orali e ricordi, alcuni anziani del posto citavano la produzione e la posa in opera di un “miscuglio” che nelle loro intenzioni bonarie – lontane da quelle decorative di partenza – serviva «a far scivolare la polvere (sic!)».
Secondo alcuni studi, l’alterazione delle patine – anche se non principalmente – può essere favorita anche dalla presenza di biodeteriogeni: si formerebbero ossalati di calcio per reazione con il substrato lapideo calcareo «[...] o con materiali aggiunti alla sostanza organica, sia volutamente all’atto della preparazione (…) sia per apporto atmosferico della frazione di carbonato di calcio, comunemente presente nelle polveri atmosferiche (Franzini, Gratziu, Wicks, 1984)».
L’estrema frammentazione, come si riscontrava già prima dell’intervento di restauro appena concluso, deriva da cause meccaniche e chimiche: è probabile che parte di queste patine sia stata asportata deliberatamente nel corso degli interventi degli anni ’70 del Novecento? In maniera ancora più plausibile si possono ritenere responsabili della riduzione delle superfici trattate l’azione erosiva del vento e gli agenti inquinanti atmosferici (acido solforico). Come precedentemente ricordato, le piogge battenti determinano degradi differenziali a seconda che le superfici siano protette o meno (cornicioni sporgenti) o vi siano possibilità di micro infiltrazioni attraverso fessure, con penetrazione di acqua anche all’interno delle stesse pellicole.
La situazione pregressa si presentava assai complessa e disomogenea sull’intera superficie: i fenomeni sin qui descritti si manifestavano con evidenza su alcuni punti e con tutta la “consistenza” del degrado ad essi connesso. Alcune aree, in prossimità della trabeazione del primo registro erano caratterizzate, con ancora maggior rilievo dopo la pulitura dei depositi carboniosi, dal descritto intenso colore ocra-rossiccio.
Certamente non quello ascrivibile all’effetto estetico/protettivo primigenio, bensì la sua alterazione che, perdendo la connotazione di artificio atto a conferire un particolare effetto o tono alle superfici dell’architettura, risultava persino sgradevole perché concentrato in determinati punti e del tutto assente in altri.
Si poneva dunque il problema di quale tipo di intervento dovesse garantire, al contempo, la permanenza di questi strati, ma non la loro predominanza sul resto (la maggior parte) dell’area interessata dall’intervento.
Numerosi saggi sono dunque stati effettuati al fine di valutare i metodi e gli interventi che potessero garantire il risultato atteso.
Sono stati valutati continuamente gli esiti a distanze diverse: in prima battuta sui ponteggi, dove più diretto è il controllo delle tecniche attraverso la verifica e l’applicazione dei criteri-guida delle operazioni di restauro. In secondo luogo dal punto di vista dell’osservatore, al livello della strada, dove l’immagine finale
restituita deve consentire la lettura dell’impaginato architettonico preferibilmente unitaria attraverso una sorta di “astrazione cromatica” dei diversi toni di colore, lasciando ad una osservazione mirata e più attenta l’apprezzamento delle discontinuità, piuttosto che ottenere un effetto a “macchie di leopardo”.
Mutuando l’intenzionalità delle tecniche applicate nel passato, dopo le consuete operazioni di pulitura dei depositi polverulenti/carboniosi, disinfezione dai biodeteriogeni e ristilatura dei giunti con malte di grassello di calce e cocciopesto, è stata operata una mitigazione delle zone particolarmente interessate dagli effetti dell’alterazione delle patine esistenti, senza tuttavia rimuoverle e, contestualmente, si è proceduto a una patinatura dei conci con acqua e bolo, ovvero la tipica terra rossa ricca di ossidi di ferro, prima della protezione finale che possa garantire per un tempo auspicabilmente esteso il risultato ottenuto.
L’intensità dell’intervento di applicazione delle nuove patine è stato oggetto di valutazione puntuale, dato che già in precedenza i due registri di cui si compone la facciata risultavano piuttosto “squilibrati”, per effetto del degrado differenziale causato dalle condizioni di esposizione/protezione delle rispettive superfici.
Non resta che andare ad ammirarla.